I dipinti ad acrilico su tela di juta di Fosco Grisendi | Collezione da Tiffany
Intervista di Benedetta Bodo di Albaretto pubblicata su Collezione da Tiffany il 2 novembre 2017
Project Marta – Monitoring Art Archive è un servizio che ho presentato all’inizio di quest’anno, il cui fine ultimo è quello di produrre per ogni opera d’arte contemporanea una scheda tecnica – un libretto di istruzioni – che raccolga al suo interno tutte le informazioni utili a conoscere in profondità le opere d’arte, ad allestirle, conservarle, trasportarle ed eventualmente restaurarle in maniera corretta.
Per svolgere al meglio il servizio il segreto sono le interviste ad artista, e quella che si vuole condividere con i lettori di Collezione da Tiffany questa volta è incentrata sul lavoro di Fosco Grisendi, classe 1976 e residente a Reggio Emilia, dove il suo lavoro è curato dalla Galleria Bonioni Arte sotto la guida di Ivano e Federico Bonioni, titolari instancabili e famiglia di appassionati di arte contemporanea.
Grisendi si è avvicinato alla pittura nel 2004 ed oggi sono dieci anni che dipinge ed espone i suoi lavori, riconoscibili nel racconto di una realtà filtrata attraverso l’iconografia televisiva, pubblicitaria e la grafica. La sua è una produzione che colpisce perché da un lato risulta familiare, dall’altro completamente estranea, come se dovessimo metterla nuovamente a fuoco per comprendere il significato di ciò che riproduce.
L’opera su cui ha lavorato Project Marta è intitolata Everything, un dipinto ad acrilico su tela di juta realizzato nel 2017 che rientra in una serie a cui Fosco lavora da diversi anni.
Benedetta Bodo di Albaretto: Le opere che hai realizzato in questi ultimi anni e che sono oggetto della nostra analisi fanno parte di un progetto curatoriale oppure si tratta di una ricerca indipendente? Come si lega questo progetto al tuo percorso artistico?
Fosco Grisendi: «Il progetto legato alla rappresentazione di oggetti e situazioni tratte dalla quotidianità caratterizza da sempre la mia produzione pittorica. Tuttavia è dal 2012 che acquisisce maggior consapevolezza, in particolare con l’opera “If I were a rich man”, una tela di grandi dimensioni (cm 200×200) realizzata per una collettiva alla Chiesa di San Carlo a Reggio Emilia con altri 4 artisti. Il curatore della mostra ci chiese di ispirarci ad un articolo, un testo critico, che descriveva la situazione economica in India e che di rimando toccava la produzione artistica contemporanea del paese. Fu in quel momento che mi accorsi che gli accadimenti del quotidiano erano per me fonte di grande ispirazione, i fatti mi aiutavano a trovare delle immagini che rendessero il senso della situazione attuale, e ad approfondirlo. A livello pratico, ho realizzato 71 dipinti prendendo spunto dalla street art e dall’illustrazione, e dal 2012 lavorando su immagini tratte dal televisivo e dai quotidiani».
B.B.: In molti tuoi dipinti le figure sono vicine ma non dialogano tra loro, sono prive di caratteri che le distinguano, non c’è prospettiva ma i colori sono accesi e molto attraenti, immediato il richiamo alla pop ed alla street art. C’è qualcosa che vorresti venisse percepito e compreso dal pubblico e dagli operatori quando osservano queste opere?
F.G.: «Io cerco di restituire una mia visione del mondo attuale attraverso i miei dipinti. È vero che i miei lavori sono ispirati dalla pop art e dalla street art, ma le considero produzioni del tutti indipendenti perché il mio lavoro si basa su una ricerca specifica, anche se il mio stile non risulta del tutto “originale”.
Tolte dal loro contesto e collocate su uno sfondo neutro, ad esempio di colore nero, le immagini che scelgo per trasmettere un messaggio assumono un significato diverso da quello di partenza. Non è qualcosa di arbitrario, quelle che scelgo sono sempre immagini familiari, riconoscibili, ma devono centrare l’argomento trattato e devono essere scollegate dall’ambito di provenienza e tra di loro. Infine, devono essere accostabili senza che ci sia una narrazione, esattamente come succede nel mondo reale, popolato di immagini senza collegamento, poiché in questo modo il pubblico può dare delle letture indipendenti per ogni lavoro, a volte addirittura migliori della mia.
Vorrei che il fruitore di una mia opera percepisse che i cliché rappresentati sono solo lo strumento visivo per arrivare ai veri soggetti, alle tematiche dei miei quadri. La mia è la ricerca di un modo efficace per rappresentare gli istinti più immediati, rivelandoli sempre come emozioni altamente codificate dal punto di vista sociale, controllate».
B.B.: Puoi descrivermi come lavori, le fasi di realizzazione e allestimento dei tuoi dipinti?
F.G.: «Inizio sempre dal disegno, realizzato a matita su carta. Il disegno mi serve per capire le proporzioni e le forme di ciò che voglio rappresentare e, fra l’altro, il motivo per cui le mie figure non sono mai direttamente collegate tra loro deriva anche dal fatto che io realizzo sempre un disegno alla volta. Lavoro direttamente sulla juta grezza a metratura, la monto al contrario sul telaio in modo che resti l’imprimitura sul retro, dopodichè – visto che la juta assorbe molto – stendo tre mani di colore nero – oppure bianco – perché sia compatto e non si vedano segni delle pennellate. Successivamente alla preparazione, riporto su tela il disegno, ingrandendolo in base allo spazio che reputo debba occupare all’interno del quadro. Una volta realizzato il disegno del soggetto sulla tela procedo al riempimento con il colore, stendendo cinque mani per ogni campitura e ripassando due volte le linee di demarcazione del soggetto. Infine con un pennello molto fine ripasso sia le figure all’interno con il colore del caso, sia le sbavature in esterno usando il nero, per fare in modo che le linee abbiano tutte lo stesso spessore. Non utilizzo vernici protettive finali».
B.B.: I supporti e le tecniche scelte – acrilico su juta – sono ricorrenti nel tuo lavoro. In generale sei soddisfatto della resa offerta da questi materiali, sono diventati un media favorito, oppure sperimenti nuove tipologie a seconda delle serie su cui lavori?
F.G.: «Mi piace il contrasto tra la juta, ruvida, e le campiture piatte, che su questo supporto si “movimentano”, e mi piace perché la juta annulla quasi le pennellate, il tratto, senza che io debba diluire troppo l’acrilico. A volte il disegno su carta mi risulta in un modo, ma una volta trasferito sulla tela può non funzionare per qualche motivo, ragion per cui faccio spesso delle modifiche oppure capita anche che tenga il disegno perché è buono, ma che non lo trasferisca sulla tela. Questo succede perché anche se il mio lavoro è tradotto tecnicamente in fasi molto precise – ad esempio scelgo il punto esatto in cui far arrivare una linea di colore, ed a volte questa combacia con un punto della trama del supporto, facendo quasi assomigliare ad un ricamo – il mio è un approccio molto istintivo, quindi a volte non riesco a decifrare con esattezza le motivazioni che mi spingono a scegliere delle immagini piuttosto che altre. Lo stesso vale per i materiali che scelgo e il modo in cui decido di utilizzarli. Quando mi chiedono se il fondo nero è preparato industrialmente o se si tratta di un ricamo mi fanno un gran piacere, perché voglio che i dipinti diano questa impressione, perciò a livello materico vuol dire che ho fatto un buon lavoro».
B.B.: Molti artisti integrano nella loro opera il concetto di temporalità, di effimero. In questo caso, quanto è importante – oppure al contrario dannosa – la testimonianza del passaggio del tempo sull’opera nei tuoi lavori?
F.G.: «Vorrei che le mie opere restassero per sempre come le ho concepite, specialmente per quanto riguarda la brillantezza dei colori. Mi rendo conto che una perdita di luminosità con il tempo si potrebbe verificare, l’importante è che sia omogenea su tutto il quadro e che non ci siano segni che disturbano la lettura del lavoro. So che è difficile mantenere la stessa resa per sempre, a quel punto mi interessa un equilibrio tra gli elementi, non bisogna per forza intervenire per “rinvigorire” i colori, ma cercare di gestire l’insieme come qualcosa che deve mantenere un’armonia cromatica. Non bisogna notare un colore più di un altro».
B.B.: I tuoi dipinti richiedono condizioni espositive particolari, immagini che vi possano essere problemi prevedibili riguardo il modo in cui i tuoi lavori possono essere esposti al pubblico?
F.G.: «Le mie opere devono essere assolutamente dritte, allestite con la bolla, ed il movimento non è previsto, quindi non si devono utilizzare cavi. Se non sono dritte cambia l’effetto finale, se si muovono non è ciò che voglio io, quindi dovrebbero essere attaccate a parete. Inoltre, aiuta avere un muro neutro, non devono esserci altri motivi o decorazioni o sospensioni. Non hanno bisogno di luce diretta, sono dipinti così contrastati da rendere bene anche con luce diffusa e non dedicata. Faccio attenzione alle didascalie, perché di nuovo non devono essere troppo grandi né colorate, né troppo attraenti, cosa che non dovrebbe succedere mai, a dire il vero».